Gli Scavi fatti sotto il terreno vulcanico e che hanno fatto venire fuori scheletri, vasi di argilla, amuleti, armi, strumenti di pietra per l’agricoltura, rivelano l’esistenza dell’uomo in questo territorio fin dai tempi preistorici.
Ed anche in tempi relativamente lontani, non men dei tempi antichissimi, il territorio fu abitato. Anzi è cosa certissima l’esservi state diverse borgate, ed alcune quasi presso lo stesso sito dove adesso sorgono i moderni quartieri: a Cubisia, a Nizeti, nella Chiesa della Corte, a S.Venera del Pozzo, a Reitana, e nel largo tratto fra queste due ultime contrade, si sono rivenuti ruderi di fabbriche, rottami, cocci e vasi di tutte le figure, giare di terra cotta, sepolcri, vasi cinerari, mosaici, monee, statue, e un’intera officina metallica, che rivelano la vetustà di esse e comprovano l’assunto che i siti furono abitati.
Lunghi studi, le gravi polemiche, le numerose pubblicazioni fatte e la copia e ricchezza dei monumenti disotterrati hanno eliminato ogni dubbio ed hanno reso certo:
1° Che fra le borgate o frazioni che formano l’Aci le più ricche e popolate sono state quelle che sorgevano l’una da S.Venera del Pozzo alla Reitana, e l’altra sul Capo dei Mulini;
2° Che dopo l’epoca greca Sifonia non è più nominata.
Strabone nell’epoca latina parla solo del capo di Sifonia: a Sifonia per contrario subentra Aci.
Aci, annovera Silio tra le città che nella seconda guerra punica parteggiarono per i romani.
Aci si rinviene nell’itinerario di Antonino Pio, e da Aci, come vuole il Vigo, parlando delle monete che portano il nome di Acisculus, trasse il nome di Aciscola la famiglia Valeria: poi di seguito Jachio, Jaci, Giaci.
Aci fu sempre nominata. Stabilita a questo modo l’antichità ed il tempo dell’abitazione nei territori del nostro moderno Comune, è facile sapere quali ne furono le vicende. Ai tempi di Gerone (475 a.C.) queste contrade furono divise in sorte a diecimila siracusani e greci. Dopo quattordici anni gli antichi possessori si ribellarono; schieratisi sotto Ducezio batterono siracusani ed etnei, e spazzando il resto degli usurpatori delle terre native, tornarono padroni delle loro contrade.
Nell’olimpiade 170 (anni 100 e 99 a.C.) i servi imbaldanziti per avere rotto e fugato vergognosamente l’esercito del console Servilio, occupate le migliori fortezze, capitanati da Antenione uomo feroce e gagliardo, forti, numerosi, arditissimi, pronti a vincere o a morire, si credevano sicuri di poter sfidare l’irritata potenza romana.
Giungeva allora il console Acquilio, che sagace e celerissimo diede loro spiegata battaglia. Nel fitto della mischia venuto a singolar tenzone, egli riportò una ferita sul capo: ma Antenione fu ucciso ed i servi, nelle vicinanze di Reitana, furono fugati e dispersi. A ricordo del trionfatore Aquilio prese il nome Acquilia la città che venne a sorgere in quei siti dove la seconda guerra servile ebbe fine. Caduti gli Aci sotto la dominazione del conte Ruggiero, essi furono nel 1091, secondo il costume del religioso conte, donati come feudo, insieme con altre molte terre, al Vescovo di Catania, l’abate Ausgerio, e così gli Aci caddero sotto il dominio feudale: il quale finché fu in mano dei vescovi, per un lungo periodo di 204 anni, si mantenne mite e paterno, ma poscia divenne tirannico ed odioso, quando re e baroni vi fecero vile e disonesto mercato.
Dopo il 1091 godette Aci per quasi un secolo prospera pace: gli abitanti tornarono alla coltivazione ed al commercio, aiutati dai saraceni destinati alla gleba, e da Aci esportavasi pece, catrame, legname ed altre derrate in gran copia.
Il terremoto del 1169 tagliò a mezzo e annullò quanto avevano fatto con lunga pace acquistato. Addì 4 febbraio l’Etna mugghiò, getto fiamme e l’intera isola si scosse. Sprofondò in più luoghi il terreno, intorbidaronsi fonti, parecchi fiumi smarrirono il corso, la cima del cratere avvallò.
I crescenti Aci furono tutti danneggiati, non solo per la furia delle scosse, ma per la perdita dei loro fertili campi, sepolti sotto una lava di fuoco. Al terremoto si aggiunse una non meno orribile sciagura. Cessata la viril discendenza dei Normanni era divenuto re di Sicilia Enrico VI imperatore di Germania, uomo barbaro senza pietà.
La Sicilia mal soffriva la dominazione di costrui, tanto diversa dalla paterna dei Normanni: fra le altre città Catania si oppose alle armi tedesche, e con Catania, Aci, che le era dipendente. Ma la gloriosa resistenza non valse che ad inasprire le barbarie di quel re. Presa d’assalto Catania, mise a fil di spada i più nobili, consumò tra le fiamme gli inermi e i deboli.
Gli Aci non poterono non patire le scorrerie e le violenze di quel mostro incoronato. Dopo però sì enormi calamità gli abitanti ebbero ozi abbondevoli per rifarsi dalle sofferte traversie.
Nel celebre vespro siciliano anch’essi sollevaronsi contro gli Angioini, ed ammazzarono i francesi che guardavano il castello: ma oltre questo fatto fino al 1296 nulla avvenne di speciale. Nel 1329 al 28 giugno, sul tramontare del sole, l’Etna mugghiando si risveglio, e dalla contrada la Musarra vomitò fumo e lava. Peggio accadde il 15 luglio, quando tuonando l’orribile monte si aprì nuova bocca presso la chiesa di S. Giovanni di Paparinecca a Fleri: l’ecclissi solare accaduto quel giorno accrebbe lo spavento alla credula gente.
Il primo dicembre 1354 un’alluvione schiantò e trascino seco alberi, tetti, terreni: poi successe una estate di fuoco che mandò a monte i seminati e inaridì i vigneti e fino gli alberi di più alto fusto. Per contrario nel gennaio 1355 acque dirottissime rinnovarono la scena dell’anno precedente. Quasi tutto questo fosse poco, il 3 maggio dello stesso anno un’invasione di innumerevoli cavallette venne a moltiplicare i mali. Divorarono messi, ortaggi, vigneti, le fronde, fino alle cortecce degli alberi.
Nell’universale dolore venne un rimedio, il quale sconciamente ingrandì il danno. Un vento furiosissimo snidò quelle torme di locuste e le gettò nel mare: ma le loro carogne addensate dai marosi alle rive, tali miasmi causarono e stomachevole fetore, che la scienza d’allora da cotesto fatto cavò la cagione della peste che ne successe, che spopolò Aci e vi faceva morire il giovane diciassettenne re Ludovico. A Ludovico successe il fratello Federico III, principe inetto ed imbecille, e però detto il semplice.
Su cotesta sua proverbiale semplicità giocarono volentieri gli Angioini a fare i loro guadagni. Re Luigi di Napoli il 4 maggio 1357 spedì Nicolò Cesarea con mille cavalli e altrettanti pedoni più a depredare che a conquistare il Valdemone.
Si diresse dapprima sopra francavilla e Castiglione: ma trovatili inespugnabili, si getto sopra Linguaglossa e Mascali, depredando, rubando, incendiando, ed il bottino dividendo tra i suoi. Il 7 maggio compariva sul nostro territorio, e fermavasi alla Reitana con incredibile spavento di tutti. Intanto Artale di Alagona che stava per il re, da Catania nell’istesso giorno con cento cavalli veniva ad affrontarli. Schieraronsi sulla sommità di Nizeti, e poscia per prudenza ritiraronsi, mentre i francesi calati furibondi ad Aci Castello, consumarono ogni sorta di delitti.
Riuscito intanto ad Artale di sconfiggere i nemici, quei che tenevano il castello si cacciarono sul colle di Montepileri, poi alla Reitana e ad Aquilia. Inseguiti fino a Castiglione, Taormina, Francavilla e Calatabiano, colà furono totalmente perduti.
Nel 1393 gli abitanti ebbero a patire le scorrerie delle soldatesca nella guerra fra Artale di Alagona e il re Martino, a somministrare le vettovaglie ai soldati di questo re, e corrispondere i balzelli per sostenerlo in quell’impresa. Fu però quel re riconoscente, avendo spastoiato gli Aci dal dominio feudale, col ridurle al regio demanio, e concedendo l’esenzione delle regie dogane per tutte le città del regno: e quel che più lega la memoria di lui agli abitanti del nostro Comune è l’aver con la sua venuta portato il culto verso Maria della Catena, oggi popolarissimo in tutta la contrada.
Erano terminate appena coteste guerre, quando il 9 novembre 1408 l’Etna si scossò di nuovo, tuonò e fece tremare Catania, San Filippo di Carcina e tutti gli Aci. Dal cratere lanciò cenere e fumo, da dietro monte Arso, per diverse bocche, vomitò lava e lapilli: il fuoco investì nel bel centro il territorio della moderna Aci Catena: però la lava si arrestò a ponente di S. Antonio. Quella è la lava che or dicesi Lavina.
Nel 1444 nuovamente Aci Catena fu minacciata dall’eruzione, ma fu scansata, perché la lava si fermò a Bonaccorsi. Nel 1420 Alfonso re di Castiglia e di Sicilia, detto il Magnanimo stracciando la decisione del Parlamento di Siracusa e la sanzione sovrana, che aveva dichiarato Aci dover essere in perpetuo del regio demanio, lo vendeva per diecimila fiorini di tarì sei a Ferdinando Velasquez, alui carissimo, di buon cuore, liberale ed animato di sentimenti nobili. Questi pose ogni cura a migliorare Aci, ad amministrare la giustizia, e da re Alfonso nel 1422 provocò il ripristinamento del più glorioso privilegio: la fiera franca di S.Venera, la quale tenevasi nel territorio dell’odierna Aci Catena, presso Aquilia vecchia e S.Venera al Pozzo: e durava dal 19 luglio al 2 agosto, ed in nostri ne menavano vanto, e l’opponevano ad Acireale, allora Aquilia nuova.
Più acuta divenne la questione quando ne 1620 gli Aquilitani ebbero la pretesa di voler trasportare la fiera nella piazza della loro matrice.
Si disse l’aria di S.Venera al Pozzo essere malsana e micidiale, si esagerarono incursioni di pirati possibili ad avvenire, i mercandanti non essere sicuri nella roba e nella vita, masnade di ladroni infestare quelle contrade. Ed in parte erano vere queste lagnanze. La vicinanza del mare dava ansa ai pirati di adocchiare la ricca preda della fiera, e le acque che impaludavano nei dintorni di S.Venera, era pur vero che esalavano miasmi micidiali per cui i pochi abitanti venivano macerati e strutti dalle febbri. Ma d’altra parte c’erano vicini a S. Venera, e sempre nel nostro territorio, altipiani ventilati di fresche e purissime aure, ricchi d’acqua, difesi quasi da natura. I quartieri adunque convennero si togliesse la fiera dal piano di S.Venera, ma si trasferisse in quei luoghi, che al loro territorio appartenevano.
E la corte diede loro ragione. Fu tolta da S.Venera e trasportossi sull’altipiano, detto la Timpa, luogo amenissimo, e presso al classico fiumicello della Reitana. Nel 1640 però, avvenuta la divisione degli Aci, quel privilegio venne ad essere partito, con danno dei quartieri, toccando i primi otto giorni ad Aquilia e gli altri otto, corrispondenti ai rimasugli, alla città di S. Antonio e Filippo.
Dopo il Velasquez il dominio d’Aci diventò un mercato vilissimo, chè la corte lo cedeva al migliore offerente. In pochi anni passando da G.B. Platamone (1439-1441) a Guglielmo Raimondo Montecateno (1441-1443), e da questo a quello nuovamente e al di lui figlio Giulio Sancio (1443), o a Bernardo Resquisens e Antonio Bardi detto di Mastrantonio (1445), il prezzo raggiunse i centomila fiorini.
Quei re, che si dicevano magnanimi e figli di magnanimi, erano tirchi e spillavano denaro anche urlando la giustizia e cadendo nel ridicolo. Vendendo, lasciavano sempre pronto un appicco, che era il diritto di ricompra; e quel diritto voleva dire che potevano togliere la dominazione ad uno per darla ad un più ricco offerente: sicchè quelli che vi andavano di mezzo erano sempre i vassalli, più o meno angariati secondo il bisogno. Gli abitanti di Aci, che non ne potevano più, quando intesero che la regia Corte nel 1528 aveva venduto per 5000 fiorini a Salvatore Mastrantonio perfino il diritto della ricompra, ritenendo che così avrebbero perduto ogni speranza di liberarsi del dominio baronale, tennero consiglio, infiammati dalle parole di messer Giovanni Patania, tornato dal servizio dell’imperatore, e deliberarono di reclamare all’imperatore, Carlo V. Sei sindaci furono eletti dai sei quartieri che formavano l’Aci; la terra fece a tutti un vestito con maniche e cappe di scarlatta fina e relative mozzette e stivali; e con alla testa il Patania, fra pericoli allora indicibili, per la difficoltà e la lunghezza del viaggio, giunsero sino a Bruxelles, dove all’imperatore presentarono, coi loro doni, le suppliche perché la patria ritornasse in grembo al regio demanio.
L’imperatore li accolse di buon viso, accettò i doni e l’offerta di 25000 fiorini e confermò nel 1530 il contratto di perpetua liberazione dal vassallaggio. Riconfermò inoltre il privilegio della fiera franca, ed Aci addivenne così città del regio demanio. I sei sindaci al loro ritorno furono accolti con gran festa, e Scarpi ricorda il nome di Michele D’Urso come S.Filippo quello di Giovanni Ferranti.
Dopo questo sembra incredibile l’essersi tentata una nuova alienazione: ma lo fu, scorsi appena ventidue anni. Clamarono i cittadini, ma, attese le necessità dell’erario, stimaron meglio sacrificarsi ed offerirono dunque il donativo di onze cento annuei in perpetuum, che per soddisfarle, s’imposero sopra il prodotto delle proprie vigne, col dazio che esiste di grana cinque per salma, dazio perciò nominato dell’Aquilia.
Dopo ottant’anni, nel 1639, un tal Ambrogio Scribani tentò nuovamente e per sè la compra della città. A tale notizia non fu cittadino che non maledicesse in cuor suo l’enorme ingiustizia dei monarchi d’allora.
Addolorati, nobili e maestranze tennero clamoroso consiglio nel quartiere di Casalotto: un tal frate Cherubino, minore osservante, li arringava ed animava a far ricorso; in conclusione convennero inviar lui ed il sindaco d’Aquilia, Diego Ponte, a combattere la ingiusta vendita e ad offrire 10.000 scudi. Tanto essi odiavano il baronale servaggio, e tanto costava la patria indipendenza! Ma spastoiate che furono dalla schiavitù baronale, tutte le frazioni che componevano Aci, rivolsero i loro animi all’industria, all’agricoltura, al commercio: ed in breve si videro fiorire per ricchezza e frequenza di popolo. E grosse borgate esistevano verso la metà del secolo XVI, seminate come dentro un vergine bosco di querce, di castagni, di altre piante, di che era pieno il territorio di Aci.
Nacquero allora le parrocchie che a mano a mano vennero erette dalla metà del secolo XVI fino ai primi decenni del seguente. In questo tempo gravi dissapori nascevano fra acquilia e i quartieri: quella voleva mantenere un certo diritto di superiorità, questi mal tolleravano siffatto trattamento che li umuliava.
Le grazie che Aquilia domandava per condurre a termine la sua matrice e per trasferirsi nella sua piazza la fiera franca inasprì gli animi: gli abitanti dei quartieri si sollevarono a rumore ed in seguito alle loro proteste il tribunale del real patrimonio mandò per delegato D. Francesco Senario, che sentenziò contro le ragioni di Aquilia, la quale, pur continuando nelle sue pretese avanzò quella di avere un giurato di più di quanto ne aveva per l’addietro. Quindi nuovi reclami dei quartieri e nuove questioni, eliminate poscia col decreto del 12 agosto 1628, che, provocato dal duca d’Alburquerque, ordinava la separazione dei quartieri da Aquilia, con erezione a città e con il seguito di prerogative, privilegi e preminenze che i quartieri avean domandato, tali quali l’aveva Aci e le altre città del regno.
Aquilia dal canto suo clamò, ripicchiò presso la R. Corte, fece conoscere che dalla divisione non poteva seguire che vicendevole distruzione, inutili gare, spese raddoppiate per mantenere due corti, annullamento di potenza e di splendore. Propose infine il solito argomento efficacissimo ed infallibile, il denaro: diede cioé onze mille da restituirsi ai quartieri che le avevano sborsate al fine di separarsi.
All’evidenza dell’oro la corte dei vicerè nicchio e si arrese: e i nostri quartieri, dopo un anno di autonomia, tornarono a malinquore a convivere con Aquilia. Ma loro nondimeno giovò aver levato una volta la testa, per esser meglio ascoltati dagli aquilitani, i quali vennero a patti convenientissimi. I patti però non vennero mantenuti e gli odi e i dissidi non si estinsero: ben presto i quartieri stabilirono di mandare a Palermo i loro delegati, e lo furono Giuseppe Musumeci e Giuseppe Calì e Patania, uno di S.Filippo l’altro di S.Antonio, alfine di assistere di persona la causa di separazione presso la corte del vicerè. La loro domanda portava come sempre il grazioso finale del donativo, questa volta innalzato a 25 mila scudi.
Nel dicembre del 1639 venne finalmente il decreto di separazione, concesso dal cardinale ed arcivescovo di Palermo Giannettino Doria, luogotenente della Sicilia nell’assenza del vicerè Francesco de Mello: poco appresso si designarono i confini dell’una e dell’altra città: i quartieri presero nome di S. Antonio e S.Filippo.
Noi non possiamo riferire cotesto decreto, per essere lunghissimo: ma certo ai nostri nel vedersi concedere oltre al titolo di amplissima e liberalissima città, tanti privilegi, quel decreto dovette sembrare l’ultimo segno delle loro aspirazioni.
Frattanto il nostro Comune lasciava il vecchio nome di Scarpi, per assumere quello di Aci Catena, dal titolo della vergine patrona. Aquilia ciò nondimeno fioriva, ma la città disgregatasi doveva subire il triste effetto di intestine lotte, perché vi mancava la concordia degli animi, la generosità di sacrificare le piccole voglie di campanile sull’altare della madre patria. Per effetto di queste discordie nel 1647 Acicastello comprato da Andrea Massa si separava. Aci Bonaccorsi nel 1632 otteneva la sua autonomia ed ultimo e con estrema ruina fu S. Antonio nel 1826.
Però nei mutamenti nel 1640 chi ebbe evidente guadagno fu il quartiere della Catena, l’antico Scarpi. Mentre prima del 1628 nemmeno contava separatamente tra i quartieri che componevano Aci, ma veniva insieme con la frazione di Cubisia, in poco tempo divenne così cospicuo, che nella separazione del 1639 gli toccò il più onorevole grado. Quivi infatti si fabbricò il palazzo della corte civile e criminale, qui tenevasi il consiglio dei giurati, qui la residenza dei giudici, del maestro notaro, del capitan d’armi; qui si costrusse il carcere, si portò al fine il primo convento, e in questa piazza tener si dovevano in ispecie le mostre generali d’armi: in breve qui il capoluogo delle frazioni, che componevano la nuova città di S.Antonio e S.Filippo.
Ben presto dunque Aci Catena superò tutti gli altri quartieri per nobiltà d’istituto, ricchezza di edifizi, frequenza di popolo e copia d’uomini illustri.
La residenza degli uomini più colti che sedevano al governo della città, l’affluire del popolo, il quale naturalmente tende verso il centro in cui si agitano gli affari, dovevano per necessità darle il primo posto. L’ebbe poi addirittura con la residenza dei principi Reggio, che ne furono signori. D. Stefano Reggio principe di Campofranco e Campoflorido, che nella occasione della spaventevole eruzione dell’Etna nel 1669 fu mandato a Catania dal vicerè di Sicilia, come general vicario a fine di mantener l’ordine e procurare ogni possibile aiuto alla sventurata città, dopo di avere ammirevolmente disimpegnato l’alto ufficio, innamorato di queste belle contrade fermò di portare qui la sua residenza, e comprò per scudi 36.500 il dominio della città di S.Antonio e S.Filippo, che la R. Corte nel maggio del 1643 aveva venduto per 36.000 scudi al marchese D. Nicolò Diana di Cefalà, perché la città non aveva pagato gli scudi ventimila offerti per ottenere la separazione.
Al marchese D. Nicolò era successo il figlio D.Guglielmo Diana, il di cui dominio durò fino al 1672. I Diana Fabbricarono in Aci Catena il loro magnifico palazzo e contribuirono ad elevare a matrice la chiesa e a portare a luce la copiosa e cristallina sorgente dell’acqua nuova, che nel 1650 fu trovata da Andrea Cantarella del quartiere della Consolazione, e poscia cavata con lavori che durarono dal 1660 al 1667, diretti dal valentissimo idraulico catanese Giambattista Marchese.
Il principe di Campoflorido, nel febbraio 1672 ricevette il possesso del dominio da Biagio La Calce, delegato della R. Corte. Il conferimento del possesso fu fatto con tutta solennità, ed in quella occasione il principe pubblicò le leggi speciali che coveano reggere la città: esse furono sagge e prudenti, dettate da valente legislatore.
Lasciò ai cittadini la facoltà di eleggere i giurati, i giudici, gli offiziali tutti, riservandosi l’approvazione delle lroro decisioni; rigoroso, specie in quel che spettava all’amministrazione del pubblico censo, al buon andamento dell’annona, all’assestamento finanziario.
Mente sagace e nei maneggi di stato spertissimo, conobbe a prima giunta nella sua città mancare la concordia fra le molte frazioni che la formavano: e se non poté arrivare ad estirpare cotesto tarlo, gli si deve concedere a merito che prima d’ogni altra cosa lo conobbe, lo ebbe di mira e cercò di distruggerlo.
Nel quartiere della Catena innalzò un magnifico palazzo per la sua residenza. Nel 1678 al principe D. Stefano successe il figlio D. Luigi I, uomo di alte cariche, pio e liberale e che proponevasi di aggiustare le pendenze tra i rivali quartieri. Egli ebbe molti figliuoli, fra i quali D. Antonio, deputato del regno e maestro nazionale di cappa e spada, mons. D. Andrea, che fu vescovo di catania e patriarca di Costantinopoli, D.Gioacchino il quale tolse in isposa Isabella Gioeni e fu erede dei beni di questa famiglia, e Stefano II, che tenne poi il dominio della città.
Sotto il governo del principe Luigi il giorno 11 gennaio 1693 vi fu l’orrenda catastrofe, di cui più lagrimevole la Sicilia non ricorda. Caddero le più fiorenti città dell’Isola e centomila uomini restarono sotto le macerie. Alla Catena le case caddero quasi tutte e la chiesa di S. Maria della Catena rovinò l’intera: solo mal messa rimase in piedi la cappella della Madonna e la nicchia entro cui conservavasi la sua statua. A non minore disastro fu sottoposta la parrocchia di S. Maria della Consolazione, anzi a peggiore: le case tutte sbattute al suolo e con quarantanove morti. Il quartiere S. Giacomo fu orrendamente sconquassato: il quartiere di S. Filippo tutto quanto abbattuto: quello di S. Lucia non presentò che un mucchio di macerie, e la sua chiesa fu atterrata del tutto: nella matrice di S. Filippo cadde il muro anteriore, precipitò il tetto, si spezzò a mezzo il muro di ponente, trascinando seco l’icona grande dell’altare maggiore.
Il principe Reggio e la sua casa furono larghi di soccorsi e d’aiuti nella sciagura che così fortemente colpì questo territorio. Questa famiglia nobilissima, che qui lasciò retaggio di grata memoria, non aveva altra cura che di rendersi benemerita ai suoi vassalli. Or continuando ad accennare la dinastia dei principi Reggio, ci fermiamo a Luigi II, che s’elevò gigante e fu onore di Sicilia, uomo di fortissimo senno e di studi, diplomatico e statista valente.
Egli coprì le più alte cariche: giovanissimo (1708) era colonnello d’infanteria spagnuola e vicario generale della città e comarca di Catania; e salendo tutti i gradini delle alte cariche, nel 1740-46 giunse a quella di ministro plenipotenziario in Francia. Uomo per destrezza diplomatica rarissimo, a lui dovettero molto i Borboni di Spagna, il cui dominio assodò durante la guerra di successione, ed i Borboni di Napoli per aver potentemente contribuito a stabilire sul trono l’infante D. Carlo.
Egli era tenuto in grande concetto dai principali regnanti del suo tempo e da pontefici e cardinali, che mantenevano con lui affettuosa corrispondenza epistolare, non solo, ma molti l’onorarono di loro visita nella nostra città, come il Cardinale Giudice, vicerè di Sicilia (17 novembre 1703) e Vittorio Amedeo di Savoia re di Sicilia (27 aprile 1714).
Nel 1747 ritiratosi dalla vita politica tornò in seno alla famiglia in Aci Catena, carico di onori, di potenza, di ricchezze, che profuse per dare sempre maggiore splendore alla sua splendida casa: vecchio e stanco della grandezza delle mondane cose, nel 1755 si ritirò nel suo palazzo accanto al famoso santuario di Valverde, smise ogni fasto, prese l’abito clericale, finché nel 1758, ottuagenario, compianto dai sudditi, chiuse i suoi giorni. Nella chiesa di Valverde in marmoreo mausoleo le sue ceneri riposano accanto quelle della sua consorte.
Nel 1761 la notte del 4 settembre un’alluvione avveniva nei monti che si addossavano all’Etna dalla parte del sud-est, dal monte d’Elice ai monti di Tardaria. Le acque calate a fiume dai recisi pendii, dalle viuzze cangiate in torrenti, orribilmente ingrossate, non potendo esser contenute dall’alveo del vallone che tagliava il quartiere di S. Lucia e giù scendeva per Aci Catena e Platani al mare, slargaronsi dai due fianchi, strascinando sabbia, massi, alberi, case, salendo sino a venti palmi d’altezza.
L’inopinato caso, l’oscurità della notte, il veder l’acque montar dentro su i letti e fuori strepitar come cento torrenti, fecero credere a quei disgraziati ritornato il diluvio universale. Fu una grande distruzione di case, di strade e giardini, e furonvi molte vittime umane, alcune delle quali furono scavate sotto le addensate arene e d’altre non si seppe notizia.
Il marchese di Salinas D.Tommaso Chacon o Giacona, fu allora mandato col regio incarico di tracciare il corso al torrente affinché s’impedisse che altri disastri si rinnovassero. Egli compì male la missione, ordinando, con graci spese del Comune, opere senza estetica, dalle quali si ottenne la bruttura di un larghissimo alveo nel bel mezzo del paese.
Dopo la morte del principe Luigi il dominio passò a suo figlio Stefano III, anch’egli virtuoso e di merito e colmato delle più alte cariche e d’insigni onori. Con la di lui morte, avvenuta nel 1790, ebbe fine la discendenza della linea primogenita dei Reggio: la consegna del palazzo della Catena fu fatto al cavaliere Rossi e la casa Reggio toglieva per sempre la sua residenza dalla nostra città.
Fu costante pensiero dei Reggio il sollevare moralmente ed economicamente la città soggetta al loro dominio, e perciò censirono le loro terre, ingentilirono i pubblici e privati costumi, gl’ingegni più eletti ornarono di cariche ed iniziarono agli affari di stato, spronarono i più agiati e doviziosi a lasciar opere pubbliche, rivendicarono l’esenzione dalle dogane. Mercè il loro favore i nobili conservavano il diritto secolare della mastra, i giurati ottennero il privilegio del titolo di Spettabili, e poco appresso sindaco, patrizio e giurati ebbero l’uso della toga, come era costume nelle principali città del regno.
Ma la storia imparziale dopo aver segnato il bene non può non registrare il male di questa dannazione, che corruppe col lusso la semplicità dei costumi, che avvezzò i nobili all’ingiusta legge di casare il primogenito e monacare i minori, che scavò un abbisso tra popolo e nobiltà, che mal tollerando, non dico pari, ma uomini che dispettavano il loro dominio, furono la cagione che la patria a poco per volta vedesse le più nobili famiglie esulare dalle domestiche mura per andare a trovare altrove una libera città, dove ogni uomo potesse vivere di sè stesso padrone. E fra questi mali, il maggiore quello che con un frivolo pretesto il principe D. Stefano I usurpava l’acqua Nuova, che sarebbe stata la ricchezza del Comune.
Estinta la famiglia Reggio nel 1790, vennero quei baroni che comandavano a bacchetta da lontano, spillando quanto più potevano e togliendo fino le reliquie dei passati benefizi, finché il gran palazzo del principe divenne come la terra di saccheggio; e fu allora che tornando a vivere gli antichi torti, tutti i cittadini, nobili, clero, maestranze, tuonarono con iterati ricorsi contro il servaggio baronale, finché Ferdinando I non lo abolì per tutti.
Nuovi litigi si riaccendevano fra Aci Catena e Aci S. Antonio nel 1812, in occasione della elezione del rappresentate al Parlamento siculo, perché nella mappa dei comuni fu, forse per errore, segnato il solo Aci S. Antonio, e perciò questo pretese solo per esso tale diritto: ma Aci Catena protestò, e il Parlamento, con decreto 15 maggio 1815, decise a suo favore.
Questi litigi furono alquanto attutiti, per breve tempo, dal funesto caso avvenuto il 20 febbraio 1818: il terribile terremoto che recò danni, spavento e confusione indicibili.
S. Antonio e S. Filippo furono sconquassati, Aci Catana atterrata: ruinò il palazzo municipale, furono diroccati chiese, conventi e il conservatorio, molte case di privati distrutte, e dalle macerie si cavarono diciassette cadaveri umani. Ai ripari concerse il governo, alleviando i pesi e con altra copia di aiuti.
Caduto come dicemmo, il palazzo municipale, la sede del giudicato fu trasportata a S. Antonio e quivi anche le carceri. Grande fu lo sdegno dei Catenoti per questo trasferimento che da temporaneo divenne definitivo, e perciò nuove contese e nuove proteste, che durarono a lungo: ma, or per caso, or per un altro, le aspirazioni di Aci Catena per la restituzione di tale diritto non furono mai paghe.
Ne venne la separazione: ed al 21 settembre 1826 giunse il regio decreto di separazione dei due quartieri in due Comuni autonomi; ma l’atto che credevasi prudente per eliminare i litigi, ne produsse altri, per la designazione di uno dei due comuni che doveva essere capoluogo del circondario, che alla fine furono decisi favorevoli ad Aci S. Antonio, ma che fino a quest’ultimi tempi non hanno dato tregua alle insistenti premure di Aci Catena, che in tutti i modi ha creduto dimostrare questo suo diritto. I Carbonari, i quali nel 1820, dopo la caduta dell’impero napoleonico, covavano il fuoco della cospirazione, ebbero in Aci Catena i loro proseliti, che con tutto l’apparato di riti, di segni e di nomi, si adunavano prima segretamente nel deserto palazzo del principe, e poscia mostraronsi un giorno processionalmente dalla chiesa di San Giuseppe alla matrice, dove il Canonico Maugeri giunse a togliere dal pulpito il Crocifisso sostituendovi la bandiera della rivoluzione.
Sviluppatasi la tremenda epidemia colerica nel 1837, i Carbonari ne trassero occasione per seminare tra le masse il maggior odio contro il re, e nascostamente andavano spargendo nelle orecchie di tutti quel morbo micidiale esser veleno, diffuso nell’aria, nell’acqua, nei cibi dai Borboni, per decimare gli abitanti e spegnere così l’ardore di libertà. Quelle idee si attecchirono, e talmente radicaronsi che condussero il popolo alle armi.
Aci Catena voleva premunirsi contro l’invasione dell’epidemia: cordoni sanitari guardavano con rigore i confini della città affinché nessuno vi penetrasse: ma vi penetrò il morbo, che fortunatamente cessò presto, dopo aver fatto una cinquantina di vittime.
La rivoluzione intanto si avanzava a larghi passi. Venne il 1848 e il 27 gennaio Aci Catena si sollevava al grido di “Viva Palermo” e nello stesso giorno fu mandato ad Andrea Rossi, Michele di Mauro, Salvatore Tropea Seminara e Antonio Urso di costituirsi in comitato provvisorio di pubblica sicurezza. Questo comitato, mentre si allargava a ventunoi membri, il 29 gennaio riferiva al comitato centrale di Palermo i fatti qui avvenuti e inviava a Messina un sussidio in denaro, ed a Catania trenta uomini armati per combattere il Borbone, i quali diportaronsi con tale disciplina e bravura da meritare non piccolo elogio di quel comitato.
Spenta a Napoli dalle armi regie la fiamma della rivoluzione, la notizia arrecò dolore ai più fervidi amatori di liberta, ed in molti abbattimento e paura. In Sicilia le cose andavano peggiorando; l’entusiasmo popolare sbollito, la guardia nazionale indisciplinata, i comitati in disaccordo.
Ne avvenne quindi che quando si vide comparire in Sicilia l’esercito borbonico, i piccoli comitati si lavarono le mani: e, pensando di sottrarre sè e le loro città all’ultimo sterminio, senza punto arrischiarsi contro un esercito, gli aprirono le porte senza resistenza alcuna. Aci Catena, seguendo l’esempio di Acireale, fece nel medesimo modo. Il 6 aprile 1849, giorno di venerdì santo, l’esercito regio, condotto dal generale Filangeri, principe di Satriano, sfilava nel piano e per la via del Corso, e quindi marciava alla volta di Catania, che il giorno appresso cadeva consunta dal ferro e dal fuoco dei Borboni.
I successivi eventi di Aci Catena restano fatti che si confondono con la storia generale dell’isola ed anche del regno d’Italia. Lo storico municipale qui ha l’obbligo di fermarsi, perché egli nel seguito dei fatti, hai quali ha assistito, non può avere quella libertà che per la storia è indispensabile.
Dalle “Memorie Storiche del Comune di Acicatena”
Monsignor D. Salvatore Bella
Pagina aggiornata il 13/11/2024